Ampiamente esplorata nel corso del Novecento, la ricerca dell’equilibrio è diventata, negli ultimi vent’anni, elemento distintivo della poetica di numerosi scultori. Lo rivelano le mostre alla galleria Mazzoleni di Torino e da Massimo Minini a Brescia.
Come Italo Calvino che nelle sue Lezioni Americane sosteneva le ragioni della leggerezza contro quelle del peso, anche l’arte contemporanea sembra affermare l’importanza della sottrazione, visto il proliferare di opere esili, precarie ed effimere, molte delle quali condividono la ricerca dell’equilibrio. Una parte significativa dell’attuale produzione scultorea ha infatti rinunciato al piedistallo per aprirsi allo spazio, manifestando talvolta un radicale desiderio di svincolarsi dal suolo. Ampiamente esplorata dalla tradizione avanguardista, la ricerca dell’equilibrio è diventata, nell’ultimo ventennio, elemento distintivo della poetica di numerosi artisti.
Lo rivela la galleria Mazzoleni di Torino che, fino al 19 gennaio, ospita nei suoi rinnovati spazi Equilibrium. Un’idea per la scultura italiana.
Curato da Giorgio Verzotti, il progetto espositivo presenta un gruppo di opere che, oltre a essere caratterizzate da un generale rifiuto di ogni forma stabile o prefissata, suggeriscono l’idea di un possibile attraversamento, pur mantenendo, in virtù della loro tridimensionalità, un saldo legame con il concetto di scultura. Esse si collocano in una linea che, partendo da Fausto Melotti, Luciano Fabro e Hidetoshi Nagasawa, arriva fino ai più giovani Gianni Caravaggio, Alice Cattaneo, Sergio Limonta e Filippo Manzini. Per questi artisti la scelta di sottrarre corpo all’opera diventa un’occasione per farla interagire con l’ambiente in cui è esposta che, così facendo, diviene un elemento capace di modificare la percezione dell’opera stessa. A creare una dimensione letteralmente in bilico tra pittura, scultura, installazione, musica e fotografia sono invece i lavori non soltanto di maestri come Vincenzo Agnetti, Getulio Alviani e Giovanni Anselmo, ma anche di Paolo Cotani, Giuseppe Maraniello, Nunzio e di alcuni esponenti di tendenze più recenti, come Shigeru Saito e Luca Trevisani. Per lo studioso di fisica l’equilibrio è la condizione in cui si trova un corpo quando le forze che agiscono su di esso si bilanciano. Questa definizione può essere applicata tanto ai lavori di Elisabetta Di Maggio, quanto a quelli di Remo Salvadori, ma mentre per la prima stabilità fa rima con fragilità, il secondo dota di un centro gravitazionale, a volte davvero precario, l’assemblaggio di materiali pesanti come marmo, pietra e metallo.
Vere e proprie cosmologie personali sono invece quelle di Paolo Icaro, in mostra dal 25 novembre da Massimo Minini. Alla ricerca dell’equilibrio perduto – questo il titolo della terza personale dell’artista torinese nella prestigiosa galleria bresciana – si compone di quattro diversi tentativi per raggiungere la stabilità: se il primo tende al cielo, mentre il secondo è circolare, insieme centripeto e centrifugo, gli altri due si propongono piuttosto di figurare lo spazio, sia esso fisico o mentale. In queste rappresentazioni dell’invisibile il concetto di leggerezza è reso dall’accurata alternanza dei pieni e dei vuoti con cui è plasmato l’ambiente. Realizzate con materiali fragili e poveri, con piglio lieve e ostinato al tempo stesso, le opere di Icaro sembrano fluttuare nell’aria con delicata grazia, mostrando come il cielo e le nuvole non siano più un tabù per l’arte contemporanea.
Così, privilegiando la leggerezza al peso, il vuoto alla massa, il movimento alla stabilità, queste sculture rispecchiano, in tutta la loro apparente precarietà, l’attuale carenza di un’ideologia dominante come pure di certezze filosofiche, politiche o religiose. Sono leggere e al tempo stesso invitano alla leggerezza dello sguardo, alla flessibilità di vedute, alla mobilità di pensiero e al rifiuto di fissarsi in un unico ruolo.