Sono oltre venti i nomi protagonisti di Look at me! Il Corpo nell’Arte dagli anni ’50 a oggi, esposizione che documenta il ruolo del corpo negli ultimi settant’anni, dai lavori socialmente impegnati degli anni Sessanta e Settanta fino ai giorni nostri.
Da oggetto della ritrattistica tradizionale a presenza attiva in happening, azioni e performance: è la trasformazione del corpo avvenuta negli ultimi settant’anni di storia dell’arte e documentata dalla mostra Look at me! Il Corpo nell’Arte dagli anni ’50 a oggi alla Fondazione Ghisla Art Collection di Locarno fino al 5 gennaio 2020. Protagonista è un gruppo di artisti e fotografi internazionali che ha spesso trattato il corpo, proprio o altrui, alla stregua di un materiale su cui intervenire. Si pensi a quel Vito Acconci che nella performance Trademarks (1970) si mordeva con forza qualsiasi parte del corpo riuscisse a raggiungere o a Gina Pane che in Azione sentimentale (1973) si conficcava delle spine di rosa nel braccio e si tagliava il palmo della mano con una lametta. Interventi estremi dove il corpo diventa luogo di sperimentazioni che intendono metterne in evidenza la vulnerabilità attraverso l’esibizione di una carne ferita, oltraggiata e sacrificale (come non pensare anche a Chris Burden che arriva persino a farsi sparare a un braccio nella performance Shoot del 1971?).
«Il corpo nella storia dell’arte è il soggetto più antico», spiega Annamaria Maggi, curatrice della mostra con Angela Madesani: «in passato la figura umana è stata l’imprescindibile strumento per comunicare storie e per dare forma visibile a sentimenti, credenze e concetti; ancor oggi, nonostante il moltiplicarsi di tendenze e prassi non figurative succedutesi nell’ultimo secolo, il corpo rimane il protagonista della ricerca di molti degli autori contemporanei più radicali e interessanti». Al centro della mostra non ci sono però soltanto le testimonianze delle azioni performative che, dagli anni Sessanta a oggi, hanno coinvolto artisti come Marina Abramovic, Vito Acconci, Vanessa Beecroft, Urs Lüthi, Ana Mendieta, Fabio Mauri, Bruce Nauman, Denis Oppenheim e Gina Pane. A essere esposti infatti sono anche Irving Penn e David LaChapelle che con i loro scatti hanno contribuito a definire un territorio ibrido dove la fotografia pubblicitaria si sovrappone a quella di moda. Sono loro, insieme a Nobuyoshi Araki e Bettina Rheims, a documentare l’evoluzione dell’iconografia della donna che, complici i processi di emancipazione e liberazione, diviene icona di un nuovo, massificato desiderio.
Ma il corpo è anche protagonista degli autoritratti di Francesca Woodman e Cindy Sherman, Luigi Ontani e John Coplans, Shirin Neshat e Kimsooja, a testimonianza di come questo genere esprima il desiderio di sopravvivere al tempo, strappando il volto al suo anonimato e facendo della propria identità l’oggetto–soggetto di una narrazione potenzialmente infinita che, nel suo delirio di conoscenza, non disdegna neppure il travestimento. «La prospettiva dalla quale si è partiti è un’indagine sulla relazione tra il corpo femminile e maschile e le ricerche di alcuni importanti artisti che hanno lavorato con il cinema, il video, la fotografia, l’installazione. Una ricerca che esce dal riduttivo concetto di genere per porre in dialogo artisti e opere assai diversi fra loro», dice Angela Madesani. Il corpo è insomma “un campo di battaglia”, come gridava Barbara Kruger nel 1989, impregnato di dolore e tensione catartica, ma capace per questo di disegnare la mappa di una nuova fisicità che, diventata tutt’uno con il suo performare, è in grado da sola di respingere la mercificazione dell’arte a favore di quell’intangibile e transitorio realizzato dall’artista con le proprie idee.