Il labirinto, che nei secoli ha affascinato scrittori e creativi, a partire dal nostro Italo Calvino, è il display scelto dal curatore Milovan Farronato per rappresentare la complessità dell’arte italiana all’imminente Biennale d’Arte di Venezia.
Nel suo saggio del 1962, intitolato La sfida al labirinto, Italo Calvino elabora i termini di un progetto che, in risposta alle complessità della cultura industriale, si senta corresponsabile della costruzione di una letteratura aperta e di un mondo non più limitato alla propria semplice rappresentazione. Per visualizzare le ingarbugliate forme della contemporaneità, Calvino suggerisce così l’efficace metafora del labirinto. Lo stesso intrico di linee, solo apparentemente in disaccordo – in realtà costruito secondo regole rigorose – ha offerto a Milovan Farronato, curatore del Padiglione Italia dell’imminente Biennale d’Arte di Venezia, il display attraverso cui rappresentare la complessità dell’arte italiana come un fattore dominante, oltre che come ricchezza. «Esso mi permette di avere una narrativa spezzata e un tempo dilatato», spiega infatti Farronato, «perché dopo essere entrato – già dall’inizio bisogna decidere quale ingresso prendere – potresti dimenticarti che stai cercando la via d’uscita».
Enrico David (Ancona, 1966), Chiara Fumai (Roma, 1978 – Bari, 2017) e Liliana Moro (Milano, 1961) sono gli artisti coinvolti. Tre nomi che, sebbene in alcuni punti in contatto – «Quello che hanno in comune è il non avere rinunciato mai a nulla del loro io creativo, sperimentando tutti i mezzi espressivi», dice Farronato – sono estremamente diversi. Se Enrico David mette in scena ricordi personali e collettivi, esprimendo una vasta gamma di stati emotivi attraverso la scultura, la pittura, il disegno, la tessitura di arazzi e l’installazione, Liliana Moro si avvale, con il proprio lavoro, di quella “sottrazione di peso” celebrata da Calvino nella prima delle sue Lezioni Americane; l’attitudine all’essenzialità l’ha così portata alla creazione di gesti apparentemente semplici che, in quanto tali, si aprono a una miriade di interpretazioni diverse. A queste due linee, “viscerale” la prima e “razionalista” la seconda, se ne aggiunge una terza, ovvero quella di Chiara Fumai, morta suicida a 39 anni nel 2017 e presente con un lavoro postumo che si intitola This last line cannot be translated e che viene eseguito ora per la prima volta dal curatore con un atteggiamento filologico estremamente rigoroso.
«Come la chiesa o il salotto», continua Milovan, «il labirinto permette di orientare il nostro sguardo, le nostre azioni, il nostro cammino. Questa teleologia spaziale è vincolante, perché, una volta entrati, si cerca la via d’uscita. Tuttavia – ed è ciò che mi piace del labirinto – la sua natura paradossale fa sì anche che ci si dimentichi del fine di uscire, dilatando il tempo». Cosa fare quindi una volta entrati in questo spazio? «Al navigatore, o a chi volesse naufragare all’interno del labirinto, direi quindi di non aver paura di fare una scelta sbagliata, perché tutte le scelte sono giuste». Esattamente come Calvino allora, che nella sua “sfida” non era alla ricerca di una risoluzione, Farronato invita il fruitore a interrogarsi su come poter vivere dall’interno in maniera attiva l’esperienza del labirinto esistenziale.