L’artista gallese esordisce a Milano con “….the Illuminating Gas”, mostra curata da Roberta Tenconi e Vicente Todolí che occupa gli spazi del Pirelli HangarBicocca come un enigma da decifrare, un’indagine sulla percezione che mette letteralmente in luce il potere evocativo dell’arte.
Nato nel 1958 a Llanelli, nel Galles, Cerith Wyn Evans debutta come filmmaker negli anni Settanta per poi affermarsi, nel decennio successivo, come produttore e regista di film e di video musicali per gruppi quali The Fall, The Smiths e Psychic TV. Risale invece agli anni Novanta il suo interesse per le forme espressive dell’installazione, della scultura e della fotografia che l’artista pratica continuando ad assorbire le influenze del mondo del cinema e della musica. Dopo aver partecipato a due Biennali d’Arte di Venezia – quella del 2003 e poi del 2008 – nel 2015 Wyn Evans è protagonista di due mostre monografiche, alla Serpentine Gallery di Londra e presso il Museion di Bolzano. Ad affascinarlo dei musei sono, a detta dell’artista, i suoi “interstizi”, ovvero «i dialoghi che si svolgono tra narrazioni diverse, oggetti diversi, e poi quelle visioni straordinarie in cui ci si imbatte per caso e in cui si scorge un riflesso di se stessi».
Luoghi insomma incredibilmente complessi e stimolanti che ispirano “….the Illuminating Gas”, mostra a cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolí concepita per gli spazi del Pirelli HangarBicocca di Milano come una composizione armonica di luce, energia e suono. 24 lavori, tra sculture storiche, complesse installazioni monumentali e nuove produzioni, sembrerebbero così convalidare la tesi dell’artista per cui una visita nei territori museali non assomiglia mai alla precedente. L’esposizione fa proprio infatti il paradosso di un segreto ben custodito eppure pubblico, il ricorso costante a un linguaggio che si muove con discrezione tra visibile e invisibile. Accade in StarStarStar/Steer (totransversephoton), l’opera che apre la mostra in una sorta di apparizione coreografata, dove luci e ombre invadono a intermittenza lo spazio, trasformandosi presto in un vero e proprio discorso non verbale cui fa da contrappunto il suono emesso dall’attigua Composition for 37 flutes.
«È stata questa la vera sfida della mostra», ha spiegato l’artista: «mettere in scena qualcosa, in modo quasi teatrale. Si può creare un evento a partire dalla presenza di un numero di cose che sono emerse negli anni, che hanno una certa unità, se non altro formale, e una palette di materiali ridotta». La maggior parte delle opere al neon esposte, sebbene di grandezze diverse, ha così la medesima provenienza, sviluppandosi come un’elaborata partitura visiva in cui ciascun pezzo è posto in dialogo con gli altri. «Penso ai nuovi lavori come a una specie di coda – come qualcosa che si potrebbe aggiungere alla fine», continua Wyn Evans. «E cosa troveremmo alla fine, se non il presente, il qui e ora? In un certo senso si tratta di una specie di ritornello, per cui alcuni dei leitmotiv, dei temi, vengono risolti». Un po’ come succede per Mantra, il duetto per pianoforte di Karlheinz Stockhausen che esercita sull’artista la stessa influenza di Duchamp. E che in questa mostra funziona un po’ come un appello a utilizzare tutti i media, coinvolgendo architetti, musicisti e coloro per cui l’arte è un esperimento sociale, politico, emotivo e psicologico.