È un’ora dannata quella in cui viviamo, un tempo buio in cui l’arte è chiamata alla rappresentazione della realtà, alla sua trasposizione simbolica. Sembra dirlo con la sua mostra – L’ora dannata, appunto – l’artista messicano Carlos Amorales che fino all’8 luglio trasforma la Fondazione Pini di Milano in uno spazio dal forte potere evocativo. A tessere i fili di quest’opera globale – in cui confluiscono arti visive, animazione, musica, poesia e performance – è la curatrice Gabi Scardi.
A.D. – La sua ricerca si è spesso focalizzata sul rapporto tra l’arte e l’architettura. Potrebbe approfondire la relazione tra l’opera di Carlos Amorales e uno spazio come quello della Fondazione Pini, casa di famiglia di un pittore e suo nipote?
G.S. – Trattandosi di uno spazio così connotato, bisognava partire dalla sua storia, non solo quindi dalla sua apparenza fisica. Quando Carlos è venuto a visitarlo gli abbiamo parlato della memoria e della responsabilità individuale che un luogo come questo porta con sé. Lui si è lasciato impressionare. Poi si trattava di sovrapporre il suo lavoro che ha un’estetica completamente diversa, molto contemporanea, un po’ post–punk, con degli elementi di forte espressionismo ogni tanto. Ci siamo mossi tra il dentro e il fuori, tra il carattere della casa in sé e il contesto anche sociopolitico all’interno del quale vive la Fondazione, perché l’arte trae sempre non solo i suoi contenuti, ma anche la sua forza e la sua urgenza dal rapporto con il presente.
A.D. – Come si sviluppa quindi la mostra?
G.S. – La prima cosa che andrebbe vista è il video intitolato Il villaggio dannato, perché è proprio da qui che si diparte il resto della mostra. La storia è tratta dalla cronaca locale messicana – anche se potrebbe avvenire oggi purtroppo non solo in Messico, ma ovunque – ed è quella, veramente drammatica, di una famiglia che lascia il proprio villaggio e che, una volta arrivata nei pressi di quello nuovo, viene identificata come straniera e linciata. Si tratta di una video–animazione realizzata magistralmente dal punto di vista grafico con delle piccole figure, abbastanza tipiche del lavoro di Carlos, che si muovono su un paesaggio naturale. Oltre a queste figure e alla storia, noi vediamo però anche il grande manovratore, un burattinaio che rappresenta le grandi forze che ci muovono. Da questo nucleo si dipana tutta l’esposizione che, attraverso un vero e proprio alfabeto di segni, occupa le diverse sale per arrivare alla maquette finale, una sorta di summa della storia. Ci sono poi altri due elementi: il primo è costituito da due sagome umane che potrebbero essere Radice e Pini. Carlos, che è a sua volta figlio di artisti, racconta infatti di essere stato molto colpito dalla storia di queste due figure che hanno vissuto nella casa e di sentirne fortemente la presenza. Infine, c’è l’ultimo elemento, forse il più appariscente, ovvero Black Cloud, una nuvola nera di farfalle che connette in modo estremamente ansiogeno tutto lo spazio, invadendone ogni angolo a partire dallo scalone d’ingresso.
A.D. – Che cosa rappresenta?
G.S. – La mostra si chiama L’ora dannata, un periodo nero, oscuro, di grande intolleranza in cui nel mondo intero sembrano riemergere delle forze tenebrose. Queste farfalle, come gli uccelli di Hitchcock, sono quindi una sorta di vanitas, un presagio di morte, un elemento cioè legato alla paura. Carlos racconta che l’idea di questa installazione nacque molti anni fa quando, dopo aver fatto visita a sua nonna – lui sapeva che sarebbe stata l’ultima volta – la notte successiva sognò un gigantesco sciame di farfalle nere.
A.D, – Che relazione c’è secondo lei tra l’arte e la politica?
G.S. – Credo che ci sia una fortissima relazione dalla quale non è possibile prescindere: l’arte è uno specchio di quello che avviene nel mondo, un distillato anche; non può essere scissa dalla realtà, quindi tutto è politico. Come diceva Godard non c’è bisogno di fare cose politiche, ma è importante fare le cose politicamente.